Luigi Battisti


Ninfee

Ninfee dettaglio

Il titolo Ninfee nasce da una forma espositiva: le Ninfee di Monet all’Orangerie; un’opera continua, sviluppatasi in un tempo lungo, di osservazione e di esercizio della pittura, tempo di uno sguardo espanso tanto quanto è avvolgente, sulle pareti curve, quella trama di colori che rende indefinito il paesaggio, in realtà limitato, dello stagno di Giverny.

Gli occhi si posano. Inquadrano, per lievi spostamenti, porzioni di trama/paesaggio. Qui, nessun colore è puro. O meglio, se lo era all’inizio, non lo è più dopo. Diluizioni, assorbimenti, trasparenze, addensamenti. Riseparazione dei pigmenti. Nullificazione del colore e suo ricrearsi in altri colori. Destino del colore: perdere la possibilità del nome.

Le trame si strutturano per traslazioni di una griglia di base. Di che griglia si tratta? Di uno spartito per timbri di colore. Di un orto, solcato passo passo da segni regolari, che condividono il fatto di occorrere in posizioni stabilite.

Poiché sotto l’avvicendarsi dei colori senza nome, c’è una geometria, lo sguardo crede di perdersi quando si ritrova in una misura calcolata e profonda, fatta di posizioni e di equidistanze. Se si perde, lo sguardo, è perché ha l’ansia di creare geometrie dal nulla del colore. Percorrere il foglio è vagare tra perdite e ritrovamenti dello sguardo. Perde il colore, come perde la strada. Ritrova la geometria attraverso la perdita di nome del colore.

Questo processo di perdita afferma inedite stesure, dove è lo sguardo ad essere assorbito. Dominio della trama pittorica. Lo sguardo è messo a distanza. Se si avvicina, non vede niente. Se si allontana, si perde. C’è un punto, però, di assoluta seduzione dello sguardo, un limite ipnotico, una soglia psichedelica. Il punto in cui lo sguardo afferra la decorazione, figura o fantasma.

“Battisti impiega i colori come se fossero elementi di una serie ai quali bastano minime variazioni timbriche, esaltate dagli accostamenti reciproci, per generare una matrice visiva che si ripete apparentemente identica, come un ideale panorama av- volgente. Al confine con la pura decorazione, gli acquerelli – dal titolo tanto ambizioso quanto programmatico di Ninfee (2012-13) – sono anche il risultato di un’applicazione ossessiva della manualità artistica controllata e pertanto depurata da qualsiasi velleità espressionistica. I lavori – la cui osservazione prolungata rivela le differenze peculiari dell’interazione fra caso e progetto – appaiono piuttosto come il risultato della resa (dell’artista) al codice prescelto. Per rimanere all’interno della metafora verbale, qui è la lingua che parla, più che il singolo parlante: essa lo assorbe senza residui nei propri schemi.”
(Francesca Gallo, da Sintattica. claudioadami Battisti Polidori, Testo introduttivo al Progetto per Sintattica, 2014)

“Una serialità non narrativa, e che pertanto non presuppone né un inizio né, tanto meno, una fine: ma un ritmo che varia secondo possibilità prefissate. Diversi gli antecedenti di un simile modus operandi, ben delineati nelle parole di Bruno Corà: «temporalità continua, […] formatività aperta a successivi scarti di elaborazione […] tali da evidenziare il processo linguistico». Il critico si riferisce alla pittura fredda e analitica degli anni Settanta, caratterizzata dall’insistenza sulla griglia, sulle proporzioni geometriche e le scale armoniche, e che non di rado ha valicato il limite della decorazione, come nei casi degli afferenti al gruppo Support/Surface, o dei più noti sviluppi della ricerca di Daniel Buren o di Sol LeWitt. In Battisti, tuttavia, si rintraccia un riferimento ideale al versante italiano della Pittura Analitica degli anni Settanta, passata probabilmente attraverso la tridimensionalità conferita al colore da Ettore Spalletti, il cui lavoro è caratterizzato da un fare metodico e seriale per certi aspetti vicino a quello di Battisti. Anche se gli esiti del maestro sono più mistici e introversi delle polifonie del secondo, in cui la casualità gioca un ruolo importante.”
(Francesca Gallo, da Corpi al lavoro sulla superficie delle cose, Catalogo della mostra Sintattica, Museo H. C. Andersen, Roma 2015, a cura di F. Gallo, Maretti ed. 2015)

“Una constatazione di tipo analogo, ma contraria e reciproca, mi suggerisce la visione di Nove, 2010, Ninfee, 2014 e Regola, 2015 di Luigi Battisti, la cui sintassi mi sembra dominata proprio dal principio della traslazione e dall’attività narrativa dello spostamento lineare. Lo sguardo — dopo l’impatto visivo dell’insieme — è portato ad una lettura temporale da sinistra a destra, dall’alto in basso, che conduce il soggetto lungo un percorso arginato dai confini del pattern, urtando i quali esso è necessitato a tornare indietro e a esperire la reversibilità del movimento stesso, reversibilità che determina, ovviamente, una diversa lettura. La traslazione, che vive della combinazione, randomica e/o intenzionale, dei colori, narra inoltre la storia dei corpi cromatici che si formano e che nel passaggio temporale dall’una all’altra posizione acquisiscono un vissuto corporeo più o meno diluito, addensato, assorbito dal fondo.
A questa “narrazione mentale” che il soggetto è portato a dispiegare nel processo di visione, se ne aggiunge poi un’altra la cui matrice squisitamente letteraria è del tutto evidente: mi riferisco, soprattutto, nel caso di Ninfee, all’intertestualità esterna che il titolo denuncia e che porta lo spettatore a scorrere al di sopra o al di sotto degli elementi che lo compongono la memoria/ricordo dell’omonimo dipinto di Monet esposto all’Orangerie di Parigi. L’acquerello opera, cioè, una citazione, procedimento sintattico e narrativo per eccellenza, che non solo pretende il richiamo di un’esperienza di lettura/visione precedente, ma che risemantizza quest’ultima attraverso l’inserimento in un’altra lettura/visione, che ne modifica e transferisce altrove il vissuto.”
(Monica Storini, da Sintassi narrativa: Beckett, Carducci e la traslazione cromatica, Catalogo della mostra Sintattica, Museo H. C. Andersen, Roma 2015, a cura di F. Gallo, Maretti ed. 2015)